Gira sulla rete un gran culto dei dati e delle misure e forse mai nella storia delle analisi siamo stati così vicini all’ideale di avere ogni cosa misurabile.
Alcuni giorni fa, il 9 maggio, il New York Times pubblicava la notizia che Douglas Bowman lasciava la sua posizione di top visual designer in Google per diventare il direttore creativo di Twitter. Le motivazioni di Bowman erano tra l’altro dichiarate in precedenza nel suo blog e si rifanno alla prevalenza dei dati e della loro misurabilità rispetto alla possibilità creativa, al punto di decidere di spostarsi in una società con un maggior contatto con il consumatore.
Purtroppo, troppi dati uccidono i dati
Vero soprattutto quando i dati raccolti non sono sufficienti di per sé.
Infatti, la sola raccolta di dati quantitativi, non è sufficiente a dare un senso e anche sul web è necessario impegnarsi in studi qualitativi. Alcune volte ho l’impressione che ci sia chi fa una croce su l’uso dei dati raccolti. Ed altrettanto spesso, e più ancora, sembra che la misura sia la tendenza dominante. Sicuramente la voglia di misurare e di sapere è la prova di un alto grado di maturità e di consapevolezza del lavoro che si fa, ma anche una posizione che rischia di essere estremista.
La domanda potrebbe essere: cosa si fa in una situazione in cui non vi sono dati disponibili, oppure i dati sono scarsi e contradddittori ? Se la cultura dominante è quella dei dati, sicuramente ci saranno non-decisioni ed errori.
I dati non prendono decisioni
Per quanto i dati racolti possano ridurre il rischio di un processo decisionale, si leggano per illuminare angoli nascosti, non sono i dati che decidono. C’è sempre una parte umana che si assume il rischio e, a ben vedere, quanti temi sono legati alla percezione e alle impressioni ?
Essere legati alla cultura della misura e della sua efficacia, è il modo certo per non introdurre mai alcuna modifica quando tutto sembra funzionare.
E quando smette improvvisamente di funzionare?
Una dose di incertezza e di minori notizie è il principio di innovazione
Dobbiamo imparare a distinguere tra la previsione e le analisi. E’ raro che si riescano a cogliere segnali deboli che indichino aree di innovazione. E nemmeno l’innovazione è un processo meccanico ed automatico. L’innovazione si basa sul contributo di intuizione e creatività, senza che questo significhi rinunciare a verifiche, focus group, test di convalida ed altro ancora.
L’aneddoto da ricordare, sempre che non sbagli a citarlo, è la richiesta del boss di Sony per avere uno strumento che gli facesse ascoltare Mozart mentre giocava a golf . Il prodotto preparato da Sony avrebbe potuto contenere anche la registrazione, magari accontentando i clienti, solo fosse stato loro chiesto. Ma l’indicazione specifica era il solo ascolto: ne venne fuori un prodotto più leggero e meno ingombrante il cui successo è ancora storia.
Il che dimostra che se vogliamo davvero innovare bisogna andare al di là delle esigenze espresse dal cliente.
Esercitare il senso comune
E’ importante esercitare il senso comune. Immaginate la vendita di prodotti in cui il ciclo di decisone è di circa 6 mesi (tra l’espressione di bisogno e di acquisto). Quando si investono soldi e risorse in AdWords, è magari difficile se non impossibile misurare l’efficacia di questa campagna ed anche se il traffico sul sito è soddisfacente, si conoscerà l’impatto commerciale dell’ investimento 6 mesi più tardi. A dimostrazione che l’esperimento non cambia la realtà dei clienti!
E’ quindi importante non confondere gli obiettivi e svluppare un quadro coerente di misurazione con quello che si conduce. Dobbiamo anche accettare il fatto che le interfacce web sono strumenti complessi, che gli elementi relativi alla percezione del cliente sono difficilmente misurabili, e che i profili degli utenti sono variabili e multiformi.
In ultima analisi si tratta di trovare un equilibrio tra il troppo e la nessuna azione e sviluppare gli indicatori che si capiscono e che ci possono essere davvero utili, al fine di non procedere completamente a caso.